Il Raggio Verde

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Finalmente...mamma!
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IL RAGGIO VERDE

...il raggio verde vuole dire strada giusta...

H.D.M.

1

Quando socchiudi gli occhi e guardi il cielo, se vedi un raggio verde é la strada giusta. Va avanti!

E' un vecchio detto scioano. Henri De Monfreid vi ha scritto un romanzo.

La strada giusta. Quale è?

Questa è l'incertezza.

Quando ho veduto per la prima volta il raggio verde?

Devo tornare indietro, moltissimo, all'epoca in cui dalla nebbia della mente comincia a prendere forma, lentamente, il primo ricordo. Poi, piano piano, bisogna ripercorrere il tempo: giorni, mesi, anni.

----

"Piero, dove sei, cosa fai là?"

Sotto il tavolino. Era il mio rifugio preferito, il punto di osservazione scelto per verificare se quello che avevo visto era una anormalità, un'eccezione, o se era così per tutte.

Dissolvenza.

Ecco, ero ancora a letto, sveglio ma non avevo completamente aperto gli occhi. Il mio lettino era a fianco a quello dei miei genitori.

Mia madre, in piedi sul tappeto, aveva tolto la camicia da notte, e all'altezza del mio sguardo c'era un folto ciuffo di peli neri. Riccioli fitti, abbondanti, che partivano da appena sotto la pancia e si vedeva che andavano a nascondersi tra le gambe. Quello che c'era in quel fitto boschetto non riuscivo a distinguerlo. Chissà, forse era una malattia.

Avrei voluto chiedere spiegazioni a mamma, ma preferii accertarmi se anche le sue amiche avessero quella stessa cosa.

Perché pensai alle amiche? Solo alle donne? Mah.

Da sotto il tavolino, però, si vedeva bel poco, o nulla!

Le amiche erano sedute, con le gambe strette, non si distingueva nulla...

No, un momento, Nicla aveva le cosce abbastanza larghe, ma riuscivo a intravedere solo il nero delle mutande. Alzai le spalle e stavo per uscire quando, guardando meglio, vidi che dalla pattina delle mutandine, mamma le chiamava 'culotte', venivano fuori, ai lati, come due baffi, abbastanza lunghi. Ero tentato di allungare la mano e toccarli.

"Piero, dove sei, cosa fai là sotto? Esci fuori, va a giocare."

Uscii, presi la palla, e andai nella mia camera.

Quanti anni avevo?

Pochissimi, perché non era ancora nato mio fratello Mauro, e quando la 'comare', cioè la levatrice, lo portò a casa nostra, io non avevo quattro anni. Lo ricordo bene il tempo in cui nacque Mauro. Era venuta a trovarci zia Elena, profittando del periodo di vacanze scolastiche, e fui completamente affidato a lei. Era bella, almeno per me, ma aveva le tette molto più piccole di quelle di mamma. Glielo domandai, e mi disse che lei era ancora giovane, aveva sedici anni. Gli chiesi di farmele vedere.

"Buono, Piero, questa sera, quando andiamo a letto. Adesso sta buono. Vieni che ti faccio il bagno."

Mi lavò accuratamente, insaponando e sciacquando, e mi asciugò lentamente. Non so perché, ma quello che zia Elena, come gli altri, chiamava il 'pipillo', era divenuto duro, con l'osso, dicevo io, com'era quasi sempre al mattino, quando mi svegliavo. Poi l'osso scompariva del tutto e non capivo dove andasse a nascondersi.

Zia Elena lo guardò, sorridendo, ed esclamò 'però', si chinò a guardarlo da vicino, gli dette un bacetto... poi gli venne l'idea di prenderlo tra le sue labbra... sentii il calore della sua bocca, la lingua che lo carezzava... Era piacevole... Peccato che zia Elena smise presto. Mi guardò in modo strano, ed era rossa in viso e respirava forte.

Dormivamo in due lettini divisi da un comodino.

La sera, appena in pigiama, sedetti sul mio lettino.

"Zia?"

"Si!"

"Devi farmi vedere le tette."

"Un momento, Piero, vado in bagno a cambiarmi. Quando torno."

Attesi pazientemente, ma non molto.

Zia Elena tornò, in camicia da notte, di quelle corte, che lasciavano gran parte delle cosce scoperte. Era abbottonata davanti. O meglio, sarebbe stata abbottonata davanti, ma zia aveva lasciato la scollatura completamente aperta. Si sdraiò sul letto.

"Dai, curioso, vieni a vedere."

Aprì la scollatura.

Si le tette erano molto più piccole di quelle della mamma, ma erano tanto carine. Ne carezzai una, delicatamente, e la guardai.

"Tu hai il latte, come mamma?"

Sorrise.

"No, Piero, il latte si ha quando vengono i figli."

"Posso provare?"

Mi guardò con volto molto serio, stette un po' a pensare. Non disse nulla, ma annuì.

Mi chinai, presi il capezzolino tra le labbra e cominciai a ciucciare, dapprima piano, poi più energicamente. Zia aveva gli occhi chiusi, senza parlare. Mi venne in mente di morderla appena.

Zia sobbalzò.

"Ma Piero...."

Mi staccai e le sorrisi.

Lei, intanto, e senza che me ne avvedessi, aveva messo una sua manina tra le gambe, al di sopra della camicia.

Quello era il momento di chiederglielo.

"Zia, ma anche tu hai i baffi tra le gambe, come la mamma?"

Scosse la testa.

"Ma che domande fai!"

"Insomma, li hai o non li hai?"

"Piero, tutte le persone adulte, se normali, hanno peli sul pube."

"Perché?"

"Perché così è la natura."

"Quindi anche io?"

"A suo tempo, certamente."

Fa vedere. Ma non le detti neppure il tempo di rispondere, di muoversi. Di colpo le sollevai la camiciola.

Verissimo. Tra le gambe era pelosa! Guardai bene, allungai ma mano e toccai... era liscia, morbida, però... Seguitai a toccare, a guardare. Poi sollevai lo sguardo su lei e la fissai, sorpreso, sbalordito.

"Ma zia, non hai il 'pipillo'..."

"Basta, Piero. Io sono femmina."

"E le femmine non ce l'hanno?"

"No, certo. Basta, va a letto."

"Senti, posso venire a letto tuo?"

Ci pensò un po'.

"Va bene."

Si fece più il là, scoprì il letto, si mise sotto il lenzuolo, mi fece posto.

Era bello essere abbracciato da lei. Mi addormentai subito, con la testa che rimuginava la incredibile scoperta che avevo fatto.

Dormivo beato, su qualcosa tiepido morbido e piacevole, e sembrava come se mi cullassero. Forse sognavo.

Ero su zia Elena, la testa sulla sua tetta. I pantaloncini del pigiama s'erano abbassati, 'pipillo' era più ossuto che mai, e stava in un caldo strano, perché sentivo anche qualcosa di cresposo sulla pelle. Zia Elena, con le mani sul mio culetto, si muoveva dolcemente, lentamente, e 'pipillo' ebbe la sensazione di risentire il caldo della sua bocca, ma molto più bello. Seguitai a dormire.

Comunque, da quella volta, zia Elena mi consentì di ciucciarle la tetta e di dormire con lei.

Il fatto che le femmine non avessero il 'pipillo' mi incuriosiva da morire, la cosa mi interessava.

Mauro seguitava crescere, poppava ingordamente e, in verità, un po' lo invidiavo che potesse farlo. E poi c'era sempre il problema di quegli inutili peli che crescevano tra le gambe dei grandi. Ma perché?

Mamma mise Mauro in culla, ed aveva ancora il vestito sbottonato.

"Mamma, posso ciucciare un po' anche io?"

Mamma, si voltò, mi dette una carezza.

"Ma tu sei grande, Piero, sei un ometto. Solo i neonati devono il latte della mamma."

La guardai con occhi imploranti.

"Neppure un pochino pochino?"

"Va bene. Solo un pochino, e solo questa volta."

Sedette sulla sedia, tirò fuori dall'abito una delle sue rigogliose mammelle. Era bianchissima, solcata da tante venuzze azzurre. Il capezzolo era come una grossa oliva vermiglia. Che bellezza.

Mi fece cenno di sedere sulle sue calde e carnose gambe.

Non me lo feci ripetere.

Mi aveva tra le braccia come teneva Mauro.

Mi avvicinai alla tetta, la baciai, la leccai, presi timidamente il capezzolo tra le labbra, mamma, con due dita, aveva afferrato la tetta e l'aveva appena premuta. Sentii il tepore dolce del suo latte che colava nella mia bocca, sulla mia lingua. Alzai gli occhi verso il volto della mamma.

Come era bella.

Sembrava come se un raggio verde, smeraldo, le illuminasse il viso.

Mi sorrideva teneramente.

-----

Quanto c'era da scoprire, apprendere, rendersi conto!

Ogni giorno qualcosa di nuovo o, in mancanza, cercavo di studiare a fondo quel po' di cui ero venuto a conoscenza.

Il tempo trascorreva, gli anni passavano, ma il desiderio di investigare in materia di sesso diveniva sempre più pressante, quasi ossessivo. Ne sapevo già abbastanza, ma era nulla di fronte all'immensità che c'era ancora da apprendere. Dal punto di vista anatomico avevo discrete cognizioni, ma era la funzione specifica che in parte mi sfuggiva.

Ogni tanto mi tornava alla mente quello che definisco il 'primo periodo nipotale', grazie a zia Elena. E quando guardavo mamma ricordavo il raggio verde di quella volta...

Mi ero confidato con Marcella, la mia compagna di banco.

Con la quale potevo parlare liberamente perché anche lei era alla ricerca dei segreti della vita. Era figlia unica e, mi aveva assicurato, non aveva mai visto un 'pipillo' al naturale. Le sue nozioni in materia fondavano su foto, statue, descrizioni anatomiche. Fu lei a informarmi cosa capitava mensilmente alle femmine, ed era ansiosa che ciò le accadesse, il ché, a suo dire, poteva verificarsi da un momento all'altro. Mi offrii come oggetto di esperimento, a condizione che ci fosse una perfetta reciprocità, e Marcella accettò.

Fu così che quando riuscimmo ad essere sicuri che nessuno ci disturbava, a casa di lei, nella sua camera, dopo che la mamma aveva detto che andava a fare la spesa per l'indomani, domenica, e il padre era fuori sede, io 'lo' tirai fuori, glielo presentai, dissi: "Questo è 'pipillo'!".

Lei lo guardò con molta curiosità e interesse.

Era a metà strada, tra la quiete e l'erezione.

"Lo posso toccare?"

"Certo!"

Allungò la manina, lo toccò appena, poi gli diede una leggera carezza e infine si decise di afferrarlo decisamente stringendolo nel palmo della mano...

Mi guardò.

"Ma Piero, 'sto coso sta crescendo..."

'Pipillo, infatti s'era gagliardamente imbaldanzito.

Marcella, con due dita, tirò giù il prepuzio, e rimase a fissare il glande, rubizzo e fremente.

"Puoi carezzarlo..."

"Posso?"

Era quello che volevo, per una volta non sarei stato io a farlo.

Non ho ben chiaro se consciamente o meno, ma Marcella, anche se con molta imperizia, stava maldestramente masturbandomi, seguitando a fissarlo.

Sentimmo la porta di casa che s'apriva.

Non fu facile rimetterlo dentro i pantaloni, ma quando la sua mamma venne a salutarci, a dirci che era tornata, eravamo riusciti ad assumere un aspetto di bravi studenti intenti a ripassare le lezioni.

Marcella era un po' rossa in viso.

Parlava sottovoce.

"Però, e ben grosso quel coso, come lo chiami? 'Pipillo'?"

"Si, è 'pipillo', ma credo che sia del tutto normale."

"Però, sembrava piccolo appena lo hai tirato fuori, poi...."

"E' naturale."

"Dici?"

"Certo!"

"E quella specie di banana di carne dovrebbe..."

Annuii.

"Non lo credo possibile. Però, sai, mentre lo carezzavo sentivo che la mia 'cosina' si scaldava. Credi che ci sia una rapporto con la carezza?"

"Sicuro."

Sua madre rientrò.

Profittai per salutare e tornarmene a casa.

A 'pipillo' ci avrei pensato io.

-----

Era stata organizzata la 'gita scolastica' di un giorno. Partenza al mattino, con la Roma-nord, fino a Soriano, per la sagra delle ciliege. Ognuno doveva portarsi la colazione al sacco.

Marcella ed io, senza nulla dirci, ci andammo sperando fortemente di avere modo per stare un po' appartati, e in santa pace. Indossava una gonna scura, a pieghe, e una blusa color albicocca. Era proprio carina, e, almeno per me, era proprio ben fatta, anche considerando la sua età. Io fantasticavo di approfondire certe cognizioni. E soprattutto lo sognava 'pipillo'.

Una volta giunti a destinazione, i professori ci dettero appuntamento per mezzogiorno in punto, al palazzo comunale, dicendo che ognuno poteva visitare il paese per conto proprio.

Noi, Marcella ed io, eravamo attirati dalla campagna. Era invogliante, soprattutto quel fienile che sembrava del tutto abbandonato. Ci inerpicammo, senza nulla dirci. Era perfettamente inutile. Quando, un po' tremanti, fummo in quel chiaroscuro, che, comunque, faceva tutto vedere, chiesi a Marcella se avesse ancora qualche 'curiosità'. Annuì, seria, compunta. Questa volta decisi di abbassare tutto, pantaloni e mutandine. 'Pipillo' fece subito capolino.

Marcella si chinò per esaminarlo scrupolosamente, e mi sembrò attratta dal 'contorno'. La palma della sua manina soppesò diligentemente lo scroto, le dita palpeggiarono i testicoli, li strinsero, fino quasi a farmi male, carezzarono il tutto, ripetutamente.

Inutile descrivere la reazione dell'interessato che svettò con baldanza.

Marcella lo guardò sotto ogni angolatura. Fece un lungo respiro.

"Ora tocca a te, Piero."

Alzò la gonna e tirò giù le culottes.

Una peluria sottile, castana, cominciava a contornare qualcosa che mi attraeva come non mai.

"Per favore, Marcella, sdraiati sul fieno."

Non si fece pregare. Le scostai delicatamente le gambe, volevo vedere cosa nascondevano. Tra due grosse, rosa e tiepide labbra, ce ne erano altre due, più piccola, più rosse, e come le toccai mi parvero umide e che si muovessero.

Mi chinai ancor più per guardare, Sentii un profumo sconosciuto, ma che mi piaceva, mi attraeva. 'Pipillo' fremeva.

D'improvviso, tra le gambe di Marcella, apparve una luce verde. Come grosso smeraldo, brillante, proprio là dove avevo intravisto le piccole e frementi labbrucce rosa. Stavo istintivamente per avvicinare 'Pipillo' a quella preziosità...

Marcella tentò di alzarsi di colpo, ma fui più rapido di lei. Intrufolai 'Pipillo' tra le sue gambe. Sentii un caldo tiepido, e le sue cosce che lo stringevano. No, non era proprio vicino allo smeraldo, ma stava tanto bene lo stesso.

Mi muovevo, ci muovevamo, come se ballassimo...

Era molto, ma molto più bello che sentire la mano carezzarlo.

Bellissimo, incantevole, e sapevo che stavo per raggiungere il piacere che ogni tanto mi concedevo, da solo logicamente. Marcella respirava forte, aveva gli occhi socchiusi, li apriva e mi guardava, li richiudeva...

Ad un certo tratto le nostre labbra si unirono, e io non so dove andò a finire il solito sputo che 'Pipillo' schizzava fuori al termine di tutto.

Stringevo forte Marcella.

Quando riuscii ad allontanarmi da lei, allungò la mano e lo afferrò teneramente.

"Ma, Piero, è tutto bagnato."

Annuii.

"Credo che anche io...senti..."

Prese la mia mano e la portò tra le sue gambe.

"Si... è bagnata...calda...bellissima..."

"Non dobbiamo farlo più, Piero, mai più..."

"Ma è bello..."

"Si... si... ma ho il presentimento che potrebbe finire male...."

-----

Quando tornai a casa abbracciai forte mamma, come non avevo mai fatto, stringendola a me, provando piacere al sentire la pienezza soda del suo seno sul mio petto. Mi guardò con infinita dolcezza, senza staccarsi. Mi carezzò i capelli. Mi allontanai un po', la guardai fissamente, con gli occhi estasiati che la percorrevano dalla cima dei capelli ai piedi.

Là, sul suo grembo, dove le gambe si congiungevano, brillava uno smeraldo eccezionale, infinitamente più splendente di quello di Marcella.

Nella mente si affacciò, improvvisa, la incantevole visione di una fitta foresta verde, che nascondeva una valle: la valle del mistero.

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Come tutti gli altri studenti della nostra età, anche noi indicavamo i professori con un nomignolo, scelto quasi sempre per le caratteristiche fisiche o comportamentali.

Quello di francese, fortemente strabico, era 'Polifemo'; ma l'attenzione era tutta rivolta a quella di matematica e fisica, una nuova, giunta dal nord, molto giovane, bruna, che sembrava la modella di 'Signorina Grandi Firme', deliziosamente disegnata dalla matita di Boccasile.

La scelta del 'titolo' da assegnare alla splendida e rigogliosa Dora Cristini, non fu facile. C'erano due fazioni: i pro 'topona', soprattutto i maschi; i pro 'Lisboa', con quasi totale rappresentanza femminile.

Qualcuno disse che non capiva proprio il senso di 'Lisboa', e Giulia, che era già fiorente e prometteva ancora meglio, rispose che tra i maschi non era troppo sviluppata l'intuizione elegante, essendo legati alla volgarità e ben lungi da qualsiasi ragionamento aristotelico.

"Cercate di capire" --disse Giulia- "Voi che siete tanto tifosi del calcio, che vi ricorda Lisboa? Quale squadra?"

Fu quasi un coro di risposte: "Benfica!"

"E allora, ottusi, se non chiamate Dora ben..fica...!"

Ci fu un mormorio sorpreso.

Io mi azzardai a dire, che che c'era lo meritava ancora di più, e alla domanda di Giulia risposi, con aria candida: "Tu!"

Scroscio di applausi, e Giulia scuoteva la testa, ma sorrideva.

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Quel pomeriggio, mentre studiavo, nella mia camera, venne Franceschina a chiedermi se volevo una aranciata.

Franceschina é la giovanissima tuttofare, che ha lasciato il lavoro agreste nella sua campagna teramana, ed è venuta in città, 'a servizio' come si diceva.

Quasi diciotto anni, di personale solido e nel contempo ben fatto, armonioso, che, pur nella semplicità del vestire, lasciava chiaramente intendere un seno prosperoso e fianchi vigorosi e ben disegnati. Il poco delle gambe che si vedeva confermava la grazia femminile che trovava ulteriore dimostrazione in un volto piacevole, bianco e rosso, con tante efelidi. Capelli color fuoco, e occhi di uno strano azzurro. 'Come lu mare di Fossacesia, ha ditto lu prete de chillu paese.' Così aveva detto, Franceschina, quando le feci i complimenti per quegli occhi, splendidi e profondi, e si fere ripetere più volte il significato di 'cesia': i Latini così chiamavano gli occhi azzurri.

In quel momento telefonò Claudio, e gli risposi che stavo sgobbando perché avevo la sensazione che l'indomani 'Lisboa' mi avrebbe interrogato.

Franceschina s'era fermata ad ascoltare la mia conversazione.

"Chi è 'sta Lisboa, Pierì?"

Le raccontai come eravamo giunti a indicare con quel nomignolo quel tocco di femmina della Dora. Si mise di fronte, quasi con aria di sfida.

"E a me come me chiameresti?"

Io lo sapevo, perché i compagni di classe che venivano a studiare a casa mia, avevano avuto occasione di vedere Franceschina. Ne avevamo apprezzato le doti, ed avevamo finito col dire che era proprio una bella giumenta, e che in considerazione delle curve e dei capelli rossi, e del fatto che eravamo certi che non conoscesse cosa fosse la depilazione, meritava senza riserve il nomignolo 'red-cunt', che era un modo per non chiamarla chiaramente e grossolanamente 'fica rossa'.

Lei, però, volle che le traducessi 'red-cunt', e lo feci, anche con un po' di cattiveria. E fu la prima volta che con Franceschina usavo termini così espliciti.

"Sicchè, tu, allora, Pierì, me consideri solo 'na reddecante, come dichi tu?"

"E' un nomignolo scherzoso, Franceschi', tu sei una gran bella ragazza. Lo sai."

"Si, ma tu pensi solo là!"

Alzai le spalle.

Scosse la testa e uscì dalla stanza. Poco dopo rientrò con l'aranciata. Ebbi la sensazione che mi guardasse con aria sorniona. Prima di andar via, si voltò.

"Ma tu che ne sai, Pierì, nun hai visto niente!"

"E allora, fammela vede'.."

Scosse la testa.

"Si, qui!"

Fece un profondo sospiro. Se ne andò.

-----

Dopo cena ero tornato a studiare.

Un po' il pensiero di 'Lisboa', la chiacchierata con Franceschina, il fatto che avessimo parlato di 'red-cunt', la sua frase, alla mia richiesta di farmela vedere: '...si..quì..', e il silenzio che mi circondava, poiché tutti erano a letto a dormire, essendo già passata la mezzanotte, cominciai a sentirmi più eccitato del solito, e il dover sempre ricorrere al grigiore inappagante della solita svuotata in solitario mi deprimeva enormemente.

Chissà cosa stava facendo Franceschina.

Andai dietro alla porta della sua camera, origliai, Si sentiva il respiro profondo, lento. Certo che dopo una giornata di lavoro doveva essere ben stanca. Spiai dalla serratura, non vedevo nulla.

Ero curioso di sapere se dormiva con la camicia da notte (non usava pigiami) o con altro indumento. Socchiusi la porta, a poco a poco l'occhio si abituò al buio. Franceschina era a letto, sulle coperte (faceva abbastanza caldo, malgrado si fosse appena in primavera), la camicia era corta, si vedevano due belle gambe e l'inizio stuzzicante delle cosce. Anche la curva del fianco aveva una particolare attrazione. Decisi di entrare. Chiusi pianissimo.

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